
Manifattura 4.0
- On 7 Dicembre 2016
Investimenti, produttività e innovazione sono le parole chiave del Piano nazionale del governo sull’Industria 4.0, che predispone un’architettura pubblico-privata. Due, nello specifico, le direttrici strategiche: promuovere gli investimenti innovativi (incentivare investimenti privati su tecnologie e beni; aumentare la spesa privata in r&d, favorire le start-up) e sviluppare le competenze attraverso la creazione di digital innovation hub e una rete di pochi e selezionati competence center nazionali che coinvolgono poli universitari di eccellenza e grandi player privati. Sono, inoltre, previste agevolazioni, incentivi e sgravi fiscali. Le sfide più importanti, come sottolinea Gianni Potti, presidente Confindustria Servizi Innovativi e Tecnologici, restano però la sensibilizzazione del sistema produttivo sui temi legati alla manifattura 4.0 e l’assistenza delle Pmi per l’implementazione di un programma di trasformazione.
Cosa ne pensa del Piano Industria 4.0 del governo e delle sue direttrici? Cosa la convince di più e cosa meno?
«Con circa un anno e mezzo di ritardo dai primi annunci e 4-5 anni dopo il Nord Europa e la Germania, va dato merito al ministro Calenda di aver innescato un meccanismo ufficiale dell’Italia sul piano Industria 4.0, un cambio del paradigma per il Paese che ci accompagnerà fino al 2030 e che certamente non si risolverà solo con questo piano. È l’inizio di un percorso molto più ambizioso e decisivo per le nostre imprese. La misura del superammortamento al 250% probabilmente favorirà più le grandi che non le piccole imprese. L’aspetto più interessante è la creazione di un clima paese positivo sui temi della digitalizzazione, della digital transformation, della formazione, anche rispetto a nuova classe dirigente».
Il piano cerca di mettere in rete il know how e di sviluppare sinergie attraverso la creazione di competence center, digital innovation hub nazionali e consorzi. Condivide questa strada?
«Mettere in rete è la parola d’ordine strategica. Attenzione però a non ripetere gli errori già commessi con l’esperienza poco edificante dei parchi scientifici e tecnologici, che non hanno funzionato. Il vero tema è: come innovation hub e competence center dialogheranno e saranno effettivamente al servizio delle aziende? Università e impresa devono fare uno scatto in questo senso e trovare modalità nuove di interazione, in base anche alle linee guida europee».
Sul fronte dell’attuazione del piano, le principali difficoltà saranno di tipo infrastrutturale, economico, per le risorse necessarie, o di tipo culturale, per la portata del ripensamento che comporta l’industry 4.0?
«La precondizione per lo sviluppo della fabbrica 4.0 è la banda ultra-larga, su questo non si discute. Le risorse, certo, servono, ma non ce ne sono così tante. Le imprese sono però pronte a investire per una finalità di sviluppo e, se riusciamo a innescare questo volano virtuoso, allora potremmo attrarre più risorse pubbliche e private. Strategico per entrare in questo ordine di idee, anche economico, è soprattutto un discorso culturale. Bisogna convincersi che non si torna indietro e che questo piano è una tappa di un percorso che andrà ancora più avanti: sono cambiati i mezzi di produzione, le logiche di gestione delle aziende, non a caso si parla di reingegnerizzazione dei processi produttivi. Occorre affrontare questa fase soprattutto in termini culturali: è uno sforzo che deve compiere tutta la classe imprenditoriale italiana, trasmettendolo a cascata alle altre risorse dell’azienda. La politica ci deve poi supportare nei modi giusti, non appesantendo con fardelli pesanti quali tasse ed eccessiva burocrazia».
La quarta rivoluzione industriale chiama direttamente in campo questioni centrali come la formazione e le competenze della forza lavoro. Quali scenari si profilano nel prossimo futuro?
«Come insegnano i tedeschi, nella fabbrica del futuro – una fabbrica flessibile per essere responsive quasi in tempo reale rispetto ai mercati – pone l’uomo al centro. Una giusta contemperazione dell’elemento umano, che sa gestire la reazione rapida su varie situazioni possibili durante la fase di produzione, diventa fattore centrale della fabbrica 4.0. Pensando alle figure professionali, la differenza la farà la formazione: saranno richieste skill completamente diverse, serviranno operai e impiegati con competenze molto più elevate di quelli attuali. Sotto questo aspetto, la quarta rivoluzione industriale presenterà inevitabilmente un costo sociale e dovremo farcene carico un po’ tutti per sostenere questa fase. Una figura che le università non stanno preparando, ma di cui si inizia timidamente a parlare, dovrebbe mettere insieme ingegneria gestionale con competenze digitali e finanziarie».
Come si può descrivere la via italiana alla manifattura 4.0, considerando il peculiare tessuto produttivo del nostro paese composto in prevalenza da Pmi?
«Sono un forte sostenitore della definizione di una via italiana alla manifattura 4.0 alternativa a quella americana ed europea, di cui è capofila la Germania, più legata a grandi gruppi industriali. Il tessuto produttivo del nostro Paese, in particolar modo di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, tre componenti importanti del Pil, è del resto composto in larga parte da piccole e medie imprese. Per questo, è importante fare rete, creare filiere e joint con grandi realtà nazionali o straniere a fare da traino. La strada italiana passa per la flessibilità dei pivot che creano filiera, facendo grande attenzione a non lasciare indietro pezzi importanti del nostro patrimonio industriale in termini di produzione e occupazione».
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